Storia di Syd Barrett, il genio “lunatico”, pittore e musicista

di Sara Angioni

Roger Keith “Syd” Barrett, nato e morto a Cambridge, vissuto dal 1946 al 2006, è stato un cantautore, chitarrista, compositore e pittore britannico.
Suona come il classico incipit di un dizionario ordinario che spiega in maniera comprensibile e lineare la vita di qualcuno. Ma la vita di Syd non è stata lineare e i suoi comportamenti non sono sempre stati decifrabili. Spigolosità eccentriche da risalire come un fiume dalle pendenze impervie.
È come se Syd avesse avuto due vite, l’una essenzialmente diversa dall’altra. Entrambe permeate da quell’alone di mistero sulla sua instabilità mentale, che lo rese assente a sé stesso. Nella prima parte della sua esistenza diede un nome e una forma ad una delle più grandi band del secolo, i Pink Floyd, mentre la seconda metà la passò al riparo dalle luci della ribalta, tra i suoi dipinti astratti e i suoi progetti fai-da-te.

Effettivamente, la pittura è stato il suo primo ma anche il suo ultimo amore, che coltivò sin da quando era studente. Fu il suo interesse prevalente dopo aver definitivamente chiuso le porte alla vita londinese nel ’82. Dipingere era l’espressione effimera di un bisogno da soddisfare sul momento, che non aveva la presunzione di esistere in eterno.
Dopo averle fotografate, era solito distruggere le sue opere, come conferma in un’intervista la sorella Rosemary Breen:

«Una volta che aveva trasferito quel bisogno di creatività su un foglio di carta, non sapeva più che farsene. Come quando mangiamo uova a colazione, non ne vogliamo più sapere per il resto della giornata, ne vogliamo in quel momento e poi basta.

Barrett stesso preferiva definirsi un pittore più che un musicista. Almeno questo è quello che affermò nel 1971 al Melody Maker, a tre anni dall’addio ai Pink Floyd. Eppure fino a quel momento aveva proseguito nel suo intento di scrivere musica, con il singolo Octopus (qui sotto il brano da ascoltare), i dischi The Madcap Laughs e Barrett.



La registrazione del suo primo album da solista deve essere stata simile a un travaglio sulle pendici di un vulcano in eruzione. E quel vulcano era Syd. L’ex manager dei Pink Floyd Peter Jenner lo aveva supportato durante le sessioni iniziate nel ’68, senza però cavarne un ragno dal buco. Successivamente, Malcolm Jones riprese in mano il progetto affiancandogli membri di diversi gruppi (The Soft Machine, Quiver e Humble Pie) per raffinare le sonorità dell’album. Infine furono proprio i suoi due ex colleghi, Roger Waters e David Gilmour, che lo aiutarono a completare tutte le tracce. Storm Thorgerson, amico di Syd e grafico di alcune copertine dei Pink Floyd, ricorda:

«Il fatto è che tutti quei ragazzi volevano essere all’altezza di Syd, che era fuori di sé. Prendeva continuamente Mandrax. Era così sconvolto che durante quelle sessions la sua mano scivolava sulle corde, mentre lui cadeva dalla sedia»

Le sessions per il suo secondo album, Barrett, furono più proficue per quanto faticose. A produrlo, anche stavolta ci fu David Gilmour, affiancato da Rick Wright e Jerry Shirley degli Humble Pie. Ricorda Gilmour:

«A quel punto avevamo solo tre alternative, se volevamo far qualcosa con Syd. Potevamo lavorare con lui in studio, suonando mentre lui si occupava della registrazione; una cosa quasi impossibile, anche se l’abbiamo fatta registrando Gigolò Aunt. La seconda alternativa consisteva nel buttar giù una specie di traccia e poi fare in modo che lui ci suonasse sopra. La terza possibilità era che lui registrasse le sue idee di base solo, con la chitarra e la voce; poi noi avremmo cercato di farne venire fuori qualcosa. In realtà io gli dicevo: “Be’, allora, Syd, cosa hai fatto?”, lui ci si metteva e alla fine ne veniva fuori qualcosa»



Durante le interviste con la stampa per la promozione dei suoi lavori, Barrett appariva quantomai distante da un approccio coerente con la realtà. Uno degli intervistatori, Peter Barnes dichiara:

«In apparenza, la situazione era abbastanza ridicola. Voglio dire, dovevi solo assecondarlo… Syd poteva dire qualcosa di assolutamente incongruo, a un certo punto, come ad esempio: “È dura, no?” e tu dovevi solo dire: “Sì, Syd, è dura”, e la conversazione si sarebbe fermata su questo argomento per cinque minuti . A dire il vero, ascoltando la registrazione dell’intervista dopo un po’ di tempo, mi sono reso conto che c’era una logica in quel che diceva, purtroppo Syd era capace di risponderti improvvisamente a una domanda che gli avevi rivolto dieci minuti prima, mentre tu eri ormai passato a un argomento completamente diverso!».

Nel ’72, Syd riprese comunque a suonare negli Stars, un gruppo con Jack Monck e Twink. Una band di brevissima durata, implosa come una supernova. Solo qualche esibizione, senza nemmeno il tempo di produrre qualcosa di inedito. Monck ricorda l’ultima esibizione al Corn Exchange di Cambridge come un piccolo fiasco, lo spettacolo di «un uomo che si stava disintegrando» e dopo l’impietoso affondo del Melody Maker con la sua recensione del concerto, Syd abbandonò il progetto.

Fu proprio questo processo di disintegrazione che aveva portato i Pink Floyd a staccarsi da Syd. Ufficialmente questo passo si compì il 6 aprile del ’68, una manciata di mesi dopo la pubblicazione del disco di debutto The Piper at the Gates of Dawn (qui il racconto del disco), Quel primo album, fu l’unico in cui Syd aveva veramente in mano le redini del processo creativo, producendo perle psichedeliche che risplendono ancora oggi, e fu sempre lui che diede ai Pink Floyd una forma, plasmandoli e traghettandoli verso l’onirismo astratto del loro primissimo singolo, Arnold Layne. E fu sempre lui a dare un nome al progetto, ispirandosi ai suoi bluesman preferiti, Pink Anderson e Floyd Council.

Poi Syd intraprese quello strano viaggio verso i meandri più reconditi della sua mente che non lo fecero più ritornare come prima. E qualcosa si ruppe. La sua incostanza, l’inconsistenza della sua presenza non fecero altro che ostacolare la vita quotidiana del gruppo durante le esibizioni, le registrazioni dei pezzi. Gli episodi bizzarri che accelerarono l’epilogo sofferto sono innumerevoli. In molti si sono dati spiegazioni diverse sulla natura dei suoi comportamenti, tentando ossessivamente di giustificare un imprevedibile declino.
Forse schizofrenia, forse disturbo bipolare. Molti, fra cui Richard Wright e David Gilmour, sostengono che la scellerata assunzione di acidi potrebbe aver avuto un suo ruolo.
Secondo la sorella, Barrett non era pazzo, solo «diverso, eccentrico, la sua mente e le sue idee erano semplicemente diverse dalla norma». Ma le diagnosi postume sono solo futili stimoli per la curiosità del piccolo Freud che alberga in ognuno di noi.
Ciò che conta è il lascito di Syd che, come il riverbero di un big bang, si è propagato a lungo nei Pink Floyd, soprattutto nei brani con cui il gruppo lo ha ricordato come Brain Damage e Shine on You Crazy Diamond. Nel ’75, durante le rifiniture al brano Wish You Were Here, Barrett apparse per una strana coincidenza astrale. Pelato e in sovrappeso, quasi irriconoscibile. Jerry Shirley racconta:

«L’ultima volta che ho visto Syd è stato forse l’ultima volta che anche gli altri Floyd lo hanno visto. È stato quando eravamo in studio a dare gli ultimi ritocchi a Wish You Were Here. […] Dall’altra parte del tavolo rispetto a noi c’era un tipo molto grasso che pareva un Hare Krishna. Pensavo fosse amico di qualcuno. Guardai Dave e lui mi sorrise; allora capii che era Syd».

Sì, la vita di Syd non è stata né ordinaria, né lineare. Del resto, lo disse lui stesso: «Non credo che sia facile parlare di me. Ho qualcosa che non va nella testa. E, comunque, non sono nulla di ciò che pensate io sia».


Commenti

E T I C H E T T E

Mostra di più