Waco Brothers - The Men That God Forgot (2023)

 di Fabio Cerbone 

Ribelli della prima ora dell’alternative country, agitatori socialisti che dall’Inghilterra thatcheriana sono giunti nella terra delle opportunità americane per scardinarne le certezze, ambasciatori di un country punk d’assalto che metteva insieme i Clash di Joe Strummer con Johnny Cash e le pedal steel di Nashville, i Waco Brothers rappresentano un percorso musicale fatto di innegabile coerenza e attaccamento alla propria missione. Al decimo album di studio e dopo quasi tre decenni di storia è logico non attendersi “rivoluzioni”, anche se lo spirito di Jon Langford (voce e chitarre, deus ex machina della formazione e storico membro dei Mekons), Alan Doughty (bassista ricordato per la militanza nei Jesus Jones) e Dean Schlabowske (chitarre e aggressività elettrica annessa), i tre membri superstiti della prima incarnazione dei Waco Brothers, non sembra curarsi del tempo che passa e di un mondo sempre corrotto, ingaggiando la sua eterna lotta contro le storture della società dei consumi e del dominio dei media.

Quello che fa la differenza questa volta, rispetto ai più recenti sforzi della band (da Going Down in History al raccogliticcio RESIST! non ci eravamo certamente entusiasmati come agli esordi), è quella iniezione di energia rock, comprensiva di una sezione fiati, che lancia la carica fin dall’apertura della traccia omonima, The Men that God Forgot. Un rimpasto continuo nella line up del gruppo, anche con qualche tragica perdita lungo il tragitto (il batterista Joe Camarillo, scomparso nel 2021), l’abbandono definitivo della pedal steel, presenza che caratterizzava i tratti honky tonk e da country fuorilegge dei primi anni, tutto contribuisce ad accelerare nella direzione di un album più turbolento, serrando le fila con un battagliero roots rock che in This Town e In the Dark pare evocare la stagione “Paisley” che fu di Long Ryders e affini, mentre la convulsa e caustica The Best that Money Can Buy recupera il violino (Jean Cook) e lo circonda con chitarre da garage band e una compatezza che i Waco Brothers non mostravano da troppo tempo.

Insomma, The Men that God Forgot, quindici brani e una cover lungimirante per descrivere il clima generale dell’album (la Teenage Kicks che li riporta oltremanica con il classico degli Undertones), si presenta con tutte le caratteristiche che avevano reso la loro formula barricadera e “alternativa” rispetto al mondo delle radici americane, quando la formazione inaugurò la sua avventura in quel di Chicago. Orfani della loro storica etichetta, quella Bloodshot che ha ormai definitivamente chiuso i battenti, tornati indipendenti e per nulla addomesticati, i Waco Brothers cavalcano i sentieri del loro punk rock in abiti country ricordandosi qualche volta di omaggiare i loro eroi (la scoppiettante George Walked with Jesus, per George Jones), riprendendo le coordinate di un suono riconoscibile (Blowin’ My Top, I Smile Through my Tears), ma spingendosi spesso e volentieri in territori più rissosi, dove pub rock di vecchia foggia (Mud River Slide) e garage blues (If Your Heart Isn’t In It, tra le migliori del raccolto) incontrano all’orizzonte il furore western americano (End of the Night) e le balere texane manco andassero a braccetto con Joe Ely (So Long General Mouton).

Curiosa poi l’idea di salutare tutti - dopo un viaggio abbastanza agitato, in conflitto con tutto ciò che la band definisce “la cinica corruzione e il materialismo” che minano il nostro vivere quotidiano – con l’apparente leggerezza di Nowhere to Run, una danza un po’ soul e un po’ caraibica sul precipizio del mondo.

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