Joe Henry - All The Eye Can See (2023)

di Nicola Gervasini 

Partiamo subito da una avvertenza: se già avete incontrato la musica di Joe Henry, e l’avete giudicata noiosa, fermatevi pure, perché i complimenti che si possono fare ad un disco come All The Eye Can See di certo non passano attraverso concetti di divertimento ed energia. La seconda avvertenza che si deve fare è che sì, il presupposto emotivo che ha anticipato l’album, e cioè l’annuncio dato dallo stesso Henry di un cancro alla prostata particolarmente insidioso che ne ha condizionato l’attività negli ultimi anni, è ovviamente il macigno che pesa sopra queste nuove canzoni. Il rischio è patire un po’ di quello che chiamerei “l’effetto Blackstar/Bowie”, lo stesso che per esempio fece sì che il mondo si accorgesse di Warren Zevon quasi solo in occasione di un album registrato già con la morte al suo fianco come fu The Wind.

Insomma, la valutazione potrebbe passare in secondo piano rispetto alla vicenda umana che permea l’album, ma anche prendendosi questo rischio, possiamo dire che Henry qui ha trovato la forza di tirar fuori alcune delle sue migliori canzoni da tempo. La sua carriera ha in fondo un prima e un dopo, dove il prima è delimitato dall’album Civilians del 2007, ultimo di una inarrestabile carrellata di dischi eccezionali, iniziata nel 1990 con Shuffletown, in cui un apparentemente normale cantautore di roots-music si è trasformato, disco dopo disc,o nel poliedrico e geniale produttore (per sé stesso e per altri) di album come Scar o Tiny Voices, dove canzone d’autore, sperimentazione, jazz, e tanto altro convivevano alla grande. Negli anni dieci però i suoi dischi si erano ritirati nell’angolo della tradizione folk, sbandierata anche in occasione dell’incontro con Billy Bragg nel 2016, e alla fine l’Henry sentito in album come Reverie o Thrum è stato un artista concentrato più sulla canzone che sulla sua resa, ed è innegabile che anche un lavoro come The Gospel According to Water possa essere sembrato anche fin troppo estremo nel suo essere spartano.

Paradossalmente il merito di All the Eye Can See, da un punto di vista produttivo, è che non cambia affatto la rotta, ma semplicemente stavolta si preoccupa anche di comunicarla in maniera più diretta. Resta un disco difficile, da ascoltare in silenzio e a luci soffuse, e Henry richiederà la vostra attenzione per farsi apprezzare. L'autore stesso presenta il disco quasi chiedendo scusa per essersi permesso di aver parlato per la prima volta di sé e del suo rapporto con quel confine tra vita e morte che un malato deve vivere ogni giorno, tanto più se poi nell’album viene coinvolto significativamente il figlio Levon Henry, che segna spesso il suono con il suo sax e il suo clarinetto. Il quartetto che lo ha raggiunto nel suo studio casalingo durante le tante convalescenze è poi completato David Piltch al basso, Patrick Warren al piano e John Smith alla chitarra, ma a trovarlo per un aiuto sono poi arrivati gli amici di una vita, come Marc Ribot, Bill Frisell e Daniel Lanois. Ma ovviamente il protagonista rimane lui, e il suo racconto, il fatto che se ha ancora senso scrivere canzoni nel 2023 è perché forse non esiste modo migliore per comunicare il dolore senza provocare o una naturale indifferenza difensiva, o l’esagerata commozione di chi ha paura di non sembrare abbastanza empatico.

In questo All the Eye Can See potrebbe essere la risposta moderna a Magic And Loss di Lou Reed, a dimostrazione che il dolore è sia di chi soffre il male, sia di chi gli soffre accanto. "There will come a day and soon, this cold parade is over” canta Henry in Red Letter Day, ma finché avrà la forza di cantare queste canzoni, questa parata non potrà mai davvero essere così fredda. 

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