The Beatles - Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band (1967)

“Dai tempi del Congresso di Vienna, 1815, la civiltà occidentale non fu mai così vicina all’unità come nella settimana in cui venne pubblicato (…) Per un breve momento, la frammentata coscienza del mondo occidentale si riaggregò, quantomeno nelle teste dei giovani”. In un famoso articolo uscito nel 1968 sulla mitica rivista Rolling Stone, Langdon Winner (che finirà a insegnare scienze politiche alla Columbia University) definiva in questi termini ciò che capitò ai giovani nella primavera del 1967, precisamente il 1° giugno, in contemporanea in tutto il mondo, primo record di un disco che ne ha un’infinità. Usciva infatti quel giorno un disco dei The Beatles, che passati ormai oltre 50 anni, è probabilmente uno dei discorsi definitivi sulla musica pop occidentale. Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band è L’Album, anche per semplici motivi tecnici: fu infatti il primo disco la cui copertina si apriva come un album fotografico e il primo sul cui retro vi erano stampati i testi delle canzoni. Probabilmente è il disco che assomma il maggior numero di leggende su ogni aspetto della sua costruzione. Fu la risposta dei quattro di Liverpool alla nascente idea del concept album: il brusio delle persone che si apprestano ad accomodarsi allo spettacolo della sgangherata band del Sergente Pepper (primo punto di leggenda: forse ispirato alla Dr. Pepper, una famosa bevanda analcolica alla ciliegia comunissima nel mondo anglosassone, oppure al cognome del capo della Security nelle tappe dal vivo canadesi di qualche anno prima, tra le ultime esibizioni dal vivo del gruppo) racconta come un flusso di coscienza, testimoniato dalla registrazione senza soluzione di continuità (altra prima assoluta della produzione di George Martin, un lavoro immane in termini economici e con le migliori tecnologie dell’epoca, e pionieristiche idee improvvisate) di storie comuni, prese dai giornali, dalla vita dei 4 musicisti, da idee che, ennesima prima assoluta, verranno vivisezionate parola per parola, nota per nota, in una prima maniacale (e, vista con gli occhi di oggi, assurda) caccia agli indizi tra le righe di riferimenti esoterici, alle droghe, ad altre licenziosità, tranello nel quale ebbe eco immane la decisione della BBC di non passare alcuni dei brani ritenuti offensivi e sediziosi. Eppure la scaletta è diventata leggendaria, la summa theologica della musica di John Lennon, Paul McCartney, George Harrison e Ringo Starr, un concentrato di classe, eleganza, idee, ironia che cambierà la storia della musica. Qualche esempio: la meraviglia di With A Little Help From My Friends, che pochi ricordano sia cantata da Ringo Starr, la leggendaria Lucy In the Sky With Diamonds di Lennon, massimo esempio di quella capziosità accennata poche righe sopra: per i pochi che non lo sapessero, le iniziali di Lucy, Sky, Diamonds davano l’acronimo dell’LSD, di gran voga all’epoca, riferimento amplificato dal mondo di fiaba, coloratissimo e caleidoscopico, che Lennon, ispirato da un disegno dell’amica di suo figlio Julian, Lucy appunto, descrive in questo meraviglioso brano psichedelico. Stessa sorta ebbe Fixing A Hole di McCartney, ispirata ad un incidente nella sua casa in Scozia (un tetto che perdeva acqua) ma che divenne metafora esistenziale sulla tossicodipendenza, giocando sul fatto che “fix” in slang significa bucarsi, e hole ovviamente rimanda al buco di una dose. Ma tutto scompare rispetto alla meraviglia di certi brani, come la ironica delicatezza di When I’m Sixty-Four (dedicata da Paul al padre che nel ’67 compiva quella età), la fantasia circense di For The Benefit Of Mr. Kite, ispirata a John da un manifesto vittoriano del circo, uno spettacolo circense in programma il 14 febbraio 1843; oppure l’Oriente che Harrison mette in Within You Without You, o la simpatica storia della vigilessa, Lovely Rita, che multò McCartney davanti ai mitici studi di Abbey Road (dove l’album fu registrato in costosissime sessioni per mesi, dal 6 Dicembre 1966 al 21 Aprile 1967, sebbene le parti di Paul di Fixing A Hole furono registrate ai Regent Studios di Londra). Ma ci sono due canzoni, tra le massime di ogni tempo, che rendono pienamente la loro genialità: She’s Leaving Home fu ispirata ad un fatto di cronaca letto sul Daily Mail da Paul e John, una ragazza scappata di casa per amore; in uno dei pochi brani dove i 4 non suonano nulla, una sensazionale sezione di archi (che Paul, fremente di completare le registrazioni, affidò non a Martin, ma a Mike Leander, per la delusione atroce del primo) racconta di una storia di crisi esistenziale, acuita dal controcanto che Lennon decise di inserire, come voce della ragione dei genitori della ragazza, una mossa straordinariamente d’effetto e indimenticabile. Gli applausi della ripresa di Sgt. Pepper’s sfumano in una dolente chitarra, che apre una delle canzoni più visionarie, eccezionali e emozionanti di tutti i tempi: A Day In A Life prende spunto da un altro fatto di cronaca molto famoso, l’incidente automobilistico che il rampollo della dinastia Guinness, Tara Browne, ebbe il 17 gennaio del ’67, che gli costò la vita: John lo lega alla sua esperienza di attore nel film How I Won the War di Richard Lester (satira antimilitarista che uscirà mesi dopo il disco, così il riferimento rimase misterioso per tempo). McCartney suggerì un verso famoso, “I’d Love To Turn You On”, che fu pietra dello scandalo, preso dai vertici della BBC come incitamento all’uso di sostanze. In un crescendo orchestrale drammatico, come un sogno in un sogno, in un attimo la canzone cambia ed è Paul che canta l’inizio di una giornata qualsiasi, tra pettini per i capelli, colazione, il bus preso al volo, una fumata di prima mattina che riporta alla melodia iniziale e all’ultima immagine surreale: a pagina 7 di quel giornale che riportava la notizia della morte di Browne, c’era anche il resoconto che il Consiglio comunale di Blackburn doveva affrontare lo stato pietoso delle sue strade, piene di buche, che ispirarono Lennon a chiedersi “quante buche servono per riempiere la Albert Hall?”, altro sottile e meraviglioso gioco di parole, dato che i compassati spettatori degli spettacoli al Royal Albert Hall venivano chiamati in slang “holes” per via del fatto che la diceria sosteneva avessero il coinvolgimento fisico durante le esibizioni di un buco della strada. Di nuovo un drammatico crescendo prima dell’ultimo, storico accordo finale: utilizzando tre pianoforti con il pedale destro di risonanza abbassato, John, Paul, Ringo e Mal Evans (il groupie più famoso della band) suonarono simultaneamente un accordo di Mi maggiore, creando un effetto che davvero dà l’impressione di una fine apocalittica. Siccome c’era ancora spazio sul disco da essere riempito, in studio i nostri mitici 4 si abbandonarono a frasi sconnesse urlate che vennero registrate per una trentina di secondi, e poi fu tagliato un segmento di nastro corrispondente a quattro secondi e cucito in forma di loop in cui si sente ripetere “Never could be any other way” (Non c'era altra maniera) a completare un brano che è una delle vette più alte della musica popolare occidentale. Bisogna dire qualcosa sulla leggendaria copertina, uno dei simboli del Ventesimo Secolo: su idea di Paul, Peter Blake e Jann Haworth realizzarono un mega collage con i quattro musicisti e un gruppo di 57 fotografie cartonate e 9 statue di cera, che rappresentano l’ideale pubblico di una loro ideale esibizione: ci sono tra gli altri Bob Dylan, Marlon Brando, Tyrone Power, Tony Curtis, Marlene Dietrich, Mae West e Marilyn Monroe, Sonny Liston, Stan Laurel e Oliver Hardy; H.G. Wells, Oscar Wilde, Edgar Allan Poe e Dylan Thomas; Karl Marx, Albert Einstein, Sigmund Freud e Carl Jung. Harrison inserì i suoi guru spirituali Mahavatar Babaji, Lahiri Mahasaya, Sri Yukteswar e Paramahansa Yogananda. La bambola sulla destra di chi guarda ha una maglia con su scritto “Welcome To The Rolling Stones”, cari amici al dispetto della fratricida nomea giornalistica, che assistettero spesso alle sessioni di registrazioni. La Emi, che all’inizio fu molto critica sulla scelta di personaggi ancora in vita per via dei diritti da pagare, fu sorpresa dal fatto che tutti diedero il placet, rimanendo ferma solo sul non far comparire Gandhi, Hitler e Gesù Cristo, per una copertina che costò circa 15 volte più di quello che all’epoca si spendeva di solito. L’album vinse 4 Grammy, i più importanti nel 1968, venderà oltre 30 milioni di copie nel mondo, è stabilmente nella cinquina più alta di ogni pubblicazione sui dischi fondamentali della storia della musica. E ha persino un altro toccante primato: poco dopo la fine delle registrazioni, Paul McCartney andò in visita a Brian Wilson, leader dei Beach Boys, che stava lavorando ad un album concept, Smile. Per via di una serie di motivi personali Wilson era sull’oro della depressione, e quando ascoltò A Day In The Life, riconoscendone una grandezza assoluta, decise di abbandonare il progetto Smile, che completerà solo nel 2003. Van Dyke Parks, geniale musicista, produttore e all’epoca collaboratore di Wilson, dirà: «Brian ebbe un esaurimento nervoso. Quello che gli spezzò il cuore fu Sgt. Pepper». Ultimo esempio della potenza di quello che sarà, probabilmente per sempre, L’Album per eccellenza. 

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