Storia della musica #16

 Il progressive rock e Canterbury

Fin dai tardi ’50, quando i 45 giri rhythm’n’blues e rock’n’roll cominciano ad arrivare dagli Stati Uniti alle nebbiose lande inglesi, tra le due coste dell’oceano si crea un gioco di reciproche influenze che sarà stato responsabile di gran parte delle evoluzioni del rock degli anni ’60; nonostante il gioco di specchi e i paralleli non possano essere messi in discussione, bisogna comunque tener conto di quanto i presupposti ed il background delle rispettive scene musicali siano diversi: in America alle spalle di una determinata scena musicale c’è spesso un movimento, da quello controculturale di Greenwich ai figli dei fiori di San Francisco e la musica è un’espressione spontanea e (inizialmente) sotterranea di quelle aggregazioni sociali.

In Inghilterra ci sono sì delle scene musicali cittadine, come quella blues di Londra o quella del Merseybeat di Liverpool, ma spesso il diffondersi di nuovi stili è privo di risvolti sociali e spesso è il risultato di una fortunata idea manageriale (come l’importazione del Light show nel 1966 che lancia per breve tempo il movimento psichedelico).

Tutto questo non va inteso come una critica, quanto piuttosto come una chiave di lettura per capire le coordinate stilistiche che da sempre si accompagnano all’“inglesizzazione” degli stili americani: una maggior libertà interpretativa a cui spesso si è associato un maggior arricchimento (o ammorbidimento, a seconda dei punti di vista) in chiave melodica.

Altro elemento da considerare è come gli ingredienti fondamentali del rock (inteso nel suo senso più generale) fossero percepiti come musica tradizionale dalla cultura americana nera (blues) e bianca (country e folk) mente si trattava di linguaggi musicali estranei per gli inglesi: il rock è per natura decontestualizzato nel momento stesso in cui viene suonato dagli inglesi (o dagli europei in generale).

Ed è con questa decontestualizzazione che si può spiegare il fenomeno del progressive rock, fenomeno che nasce e si sviluppa quasi unicamente in Europa dalla fine dei ’60 e per quasi tutti i ’70 e in cui l’elemento rock diviene semplice spunto per composizioni e sperimentazioni che ne trascendono completamente forma e spirito: la forma-canzone tipica del pop viene ripudiata, la musica si arricchisce di suggestioni provenienti dal mondo della classica e dal jazz, l’attenzione si spinge sulla tecnica degli artisti che si lanciano in lunghi assoli che devono molto al jamming della psichedelia; a ben guardare, d’altra parte, è proprio con la psichedelia americana che si erano imposte molte delle caratteristiche del “formato” progressive: la dilatazione della canzone, l’assolo e la jam, ma soprattutto una commistione senza precedenti tra generi.

Se però la psichedelia, come si diceva, era stato un fenomeno spontaneo e legato a pratiche sociali, il progressive nasce spesso come musica intellettuale, esercizio colto di ricerca che trova nell’album, più che nei singoli pezzi, la sua forma ideale.

I prodromi del prog-rock possono essere già individuati in alcuni dischi inglesi del 1967, in particolare quelli di Moody Blues, Procol Harum e Nice, tra i primi ad introdurre nel rock elementi di musica classica. Se nei pezzi dei primi due gruppi l’elemento classico viene comunque inserimento a scopo ornamentali in strutture essenzialmente pop, avvicinandoli idealmente al filone, di cui s’è già parlato, del pop-rock barocco, più particolare è il caso dei Nice del tastierista Keith Emerson che, inserendo elementi di classica in un contesto lisergico, traghettano la musica psichedelica inglese nelle acque del progressive.

Un altro segnale di questo slittamento è la comparsa delle prime opere-rock, in particolare “S.F. Sorrow” (1968) dei Pretty Things e “Tommy” degli Who (1969): segnali importanti di un aumento di ambizione da parte degli artisti rock e definitiva legittimazione dell’LP e del concept album.

Ma soprattutto è degli stessi anni la comparsa di quella che sarà ricordata come la prima generazione del progressive: Traffic, Genesis, Jethro Tull e Family.

Partiti in piena stagione psichedelica i primi, formatisi intorno alla figura di Steve Winwood (cantante, chitarrista e tastierista), partiti con forti inclinazioni folk e con una line up eccentrica per l’epoca, che comprendeva l’organo di Winwood e il flauto a canne (?) di Chris Wood, il gruppo si trovò ben presto lanciato in lunghe jam che viravano verso blues e jazz, raggiungendo un perfetto equilibrio nel 1968 in “Traffic” e spingendosi definitivamente verso il jazz nel 1970 con “John Barleycorn Must Die”.

Diverso il tipo di suono creato dai Genesis, in studio e dal vivo, quasi cameristico negli arrangiamenti, melodrammatico e teatrale, come teatrali anzi, multimediali, erano le esibizioni live del gruppo, incentrate sulla figura carismatica del cantante-mimo Peter Gabriel: cabaret musicale per la fine del millennio, la musica dei Genesis raggiunge il suo apice qualitativo con “Foxtrot” (1970) terminando poi la sua storia (almeno per quel che riguarda i Genesis storici con Gabriel) con il doppio “The Lamb Lies Down On Broadway” (1974).

Fusione schizoide e apparentemente paradossale quella attuata dai Jethro Tull: il più americano dei gruppi prog, fusione spericolata di generi apparentemente inconciliabili come hard rock e folk medievale, blues, jazz e country: il capolavoro è “Aqualung”, del 1971, concept-album in cui l’improbabile miscela sonora è messa al servizio di una serie di riflessione sul rapporto dell’uomo con religione e chiesa.

Ancor più difficile da incasellare la Family di Roger Chapman che fin dall’esordio del 1968, “Music in a Doll’s House”, rende chiare le sue ambiziose coordinate stilistiche e musicali: mosaico di difficile decifrazione fortemente influenzato dal blues, ma anche dalla classica, dal folk celtico e dall’acid-rock; da questa miscela apparentemente incongruente può emergere di tutto: dalla commovente “Mellowing Grey” ad una “Peace of Mind” che, per la sua acida fusione di hard-blues e folk celtico, ma soprattutto per il cantato posseduto di Chapman, anticipa di parecchi anni certe sonorità tipiche dell’heavy metal.

Se questi gruppi costituiscono la prima guardia del suono prog inglese l’età d’oro del genere comincia con una seconda ondata di gruppi che annovera King Crimson, Van Der Graaf Generator e Yes tra i suoi principali esponenti: gruppi che rendono ancor più spinto il gioco di ricerca e di fusione sonora allontanandosi sempre più dalla matrice rock e virando prepotentemente verso i territori del jazz e della classica.

I primi sono guidati dal virtuoso della chitarra Robert Fripp, cui fanno eco il mellotron (oltre che l’organo ed il flauto a canne) del vocalist Ian McDonald e la batteria di Michael Giles: se il primo brano dell’esordio (e capolavoro) del gruppo “In the court of the Crimson King“ (1969), “21st Century Schizoid Man”, è un eccitante esperimento di fusione col free jazz, nei brani successivi successivo le sonorità si avvicinano da una parte alla classica (“I talk to the wind”), dall’altra a quelle atmosfere medievaleggianti che saranno cavallo di battaglia del prog inglese, in pezzi come “Epitaph” e nella title track. In the court… sarà anche il canto del cigno del gruppo, almeno nella sua incarnazione originaria, che proseguirà come creatura personale di Fripp già dal successivo “In the Wake of Poseidon” (1970).

Fripp lo ritroviamo anche nel capolavoro assoluto dei Van Der Graaf Generator, quel “Pawn Hearts” (1971) in cui il gruppo di Peter Hammill raggiunge la piena maturità: il suono claustrofobico del gruppo è una sorta di punto d’incrocio tra Genesis e King Crimson, vicino ai primi per il cantato melodrammatico e teatrale, accostabile ai secondi per le tastiere e il flauto che sostengono la cupa voce di Hammill, miscela oscura che rappresenta il versante più pessimistico e cupo del suono progressivo inglese.

Laddove i King Crimson si distinguono per la maestria nell’aggirarsi tra i generi più disparati e i Van Der Graaf Generator si segnalano per la visionarietà raggelante, gli Yes si fanno ricordare soprattutto per la magniloquenza e la pomposità del suono incarnando per molti versi, nel bene e nel male, tutti quegli eccessi del prog che avrebbero nel giro di qualche anno innescato la reazione furibonda e nichilista del punk. Il suono del gruppo è un’estenuante esibizione di perizia strumentale e di accostamenti azzardati, sempre sul rischio di collassare in un vuoto onanismo: così in un pezzo come “Starship Trooper” il gruppo interrompe bruscamente il viaggio spaziale sonoro intrapreso nelle prime battute del pezzo con uno stacco country-folk di circa un minuto per poi riprendere con la spirale circolare chitarristica che aveva inaugurato il pezzo, mentre “I’ve Seen All Good People”, Crosby Stills Nash & Young vengono trapiantati in un mondo algido di organi e sintetizzatori: entrambi i pezzi provengono da “The Yes Album” (1971), disco che li impone da subito come gruppo progressive per eccellenza, all’inizio di quegli anni ‘70 che vedono esplodere il genere in Inghilterra, con decine di gruppi a codificarne (e per certi versi a cristallizzarne) il suono.

Tra questi spiccano Emerson, Lake & Palmer, primo supergruppo prog della storia, composti dall’ex tastierista dei Nice Keith Emerson, dal bassista dei Crimson Greg Lake e dalla batteria dell’ex Atomic Rooster Carl Palmer; tra i primi a rendere il genere popolare presso il grande pubblico, forgiando una sorta di prog-arena-rock da classifica e superando gli stessi Yes in magniloquenza: “Tarkus Medley”, pezzo d’apertura del secondo disco del gruppo, “Tarkus” (1971), con i suoi 21 minuti di lunghezza ne è prova inoppugnabile.

Più vicini alle atmosfere affabulatorie di certi King Crimson che alle atmosfere pacchiane di tanto prog i Gentle Giant, raffinata unione di rock, jazz e classica che tocca i suoi picchi in album come “Octopus” (1972) e nel concept “Three Friends” (1972), disco in cui suono del gruppo si indurisce in cui la cervellotica arte del gruppo si rivela definitivamente .

Associabile in parte al fenomeno progressive ma allo stesso tempo caso a parte è la scena che si sviluppa a Canterbury a cavallo tra ’60 e ’70: gruppi come Caravan, Soft Machine ed Egg, diversissimi stilisticamente ma accomunati da una spiccata attitudine per la sperimentazione vicina alla psichedelia e all’avanguardia, fin dall’esperienza nel complesso beat dei Wilde Flowers, palestra musicale per i componenti di Soft Machine e Caravan…

I primi danno un nuovo significato al termine jazz-rock: nella musica dei Soft Machine il jazz non è un suono da introdurre nel pezzo a mo di preziosismo, come in tanto progressive: la struttura melodica stessa dei pezzi è jazz, bop e free, e la strumentazione è solo parzialmente rock. Una trasfigurazione già evidente in “Volume Two” (1969), dove a gioielli d’improvvisazione si alternano gemme dalla melodia stralunata come “Hollo Der” e “Dada Was Here”, e che si fa ancora più marcata in “Third” (1970), le redini del gruppo ormai saldamente in mano a Robert Wyatt: il quale, anche dopo la fine dell’avventura coi Soft Machine proseguirà ed ampliamente ulteriormente quel discorso musicale coi Matching Mole e con una carriera solista folgorante, che trova in “Rock Bottom” (1974), raccolta di canzoni d’amore dall’incedere dilatato e dallo sviluppo magmatico, il suo apice artistico.

Diverso il percorso intrapreso da un altro ex Soft Machine, Kevin Ayers, autore di dischi eclettici e stralunati che ondeggiano tra music hall, folk e prog, arrivando alla quadrature del cerchio con “Whatevershebringswesing” (1971), dove la multiforme vena progressiva si fa più accessibile e pop.

Dove i Soft Machine incarnano lo spirito più avventuroso della scena di Canterbury, i Caravan risultano relativamente più canonici e facilmente avvicinabili al resto dell’universo progressive, con un suono che è un felicissimo punto d’incontro tra le tante tendenze del rock inglese di questi anni: il folk-rock inglese e la passione per la jam acida convivono con suono di un sax che ci ricorda che siamo pur sempre a Canterbury e la contaminazione col jazz non può che essere comunque fortissima come testimonia “In the Land of Grey and Pink” (1971), canto del cigno per la prima incarnazione del gruppo (David Sinclair di lì a poco si unirà ai Matching Mole di Wyatt), ambiziosa avventura sonora tra i quieti paesaggi pastorali del folk e i sentieri impervi ed inesplorati del jazz.

Nel 1970, un anno prima dell’uscita di quel disco, si formano gli Egg di Dave Stewart e Steve Hillage: gruppo che espande ulteriormente il campo di sperimentazione della scena integrando elementi di musica classica in “The Civil Surface” (1974); è invece del 1969 l’esordio dell’ex Soft Machine Daevid Allen con i Gong, autori su “Camembert Electrique” (1971) di una revisione in chiave pop del connubio tra acid rock e jazz rock, caso unico nel già ameno panorama musicale di Canterbury.

Commenti

E T I C H E T T E

Mostra di più