Old Crow Medicine Show - Paint This Town (2022)

 

di Blackswan

Vado a memoria, ma per quanto mi sforzi, non ricordo un disco brutto degli Old Crow Medicine Show. Una carriera in crescendo, per intensità e ispirazione, in cui il combo capitanato da Ketch Secor, è riuscito a dare nuova linfa vitale alle radici del suono americano, attraverso un approccio esuberante e grintoso mutuato tanto dalla tradizione quanto dal punk’n’roll. Tornati alla loro ex etichetta (la ATO), dopo un disco, Volunteers, pubblicato per la Columbia, il sestetto di stanza a Nashville, si ripresenta, dopo quattro anni di silenzio (interrotto solo dalla pubblicazione dal notevole Live At The Ryman), con un nuovo album, che è anche il primo registrato nei loro studio e il primo che vede tra le fila della line up i nuovi membri, Jerry Pentecost (batteria, mandolino), Mike Harris (chitarra slide, chitarra, mandolino, banjo, dobro, voce) e Mason Via (chitarra, gitjo, voce).

Paint This Town non nasconde i suoi intenti, esplicitati in liriche mai così intense e strutturate: tenere un bilancio dei tempi cupi che stiamo vivendo, raccontare l’America con uno sguardo critico ma anche carico di nostalgia, e fare in modo che il messaggio, spesso profondo, sia veicolato da una musica vibrante, capace di emozionare e divertire.

La partenza non poteva, quindi, che essere veemente, con l’armonica spavalda che accende la macchina dei ricordi nell’iniziale title track (firmata da Ketch Secor e Jim Lauderdale), un tuffo nel passato, per abbracciare un’adolescenza consumata nell’agreste e antica bellezza di una piccola città, dove "i ragazzi della fattoria vanno a pomiciare o muoiono", in cui ciò che c’è da fare è solo salire sulla torre dell’acqua o suonare il jukebox per tutta la notte. Immagini in bianco e nero, eppure vividissime, che aprono davanti agli occhi di chi ascolta lo scenario di vite di piccolo cabotaggio, così apparentemente inutili, e così appassionatamente romantiche.

Il Sud e la sua storia, tornano nel ristagno paludoso dell’inquietante blues “John Brown's Dream”, una canzone dal taglio politico, che ricorda la violenta ribellione del noto abolizionista contro la schiavitù e la sua morte sul patibolo, giustapponendo la voce di coloro che lo vedevano come il diavolo, con il ricordo di ciò che ha cercato di realizzare, ”perché il peccato di questa terra non potrà mai essere emendato finchè ogni schiavo non sarà libero”.

Il messaggio politico torna anche in "Gloryland" (co-scritto da Secor e dall'ex membro, Critter Fuqua), un’appassionata ballata dagli echi dylaniani per pianoforte e violino, che guarda attonita l'incubo contemporaneo di un mondo impazzito, e nell’urgenza punk rock di “Used To Be A Mountain”, in cui ricordi di gioventù sono il metro di paragone per raccontare il dramma di una regione, quella degli Appalachi, allo sfascio, sia in termini ambientalisti (“C'era cuore, c'era anima, ma immagino che ce li siamo dimenticati/Perché non c'è niente fuori dalla finestra, solo un cartello su un mucchio di scorie che dice: qui c'era una montagna") che economici ("C'era una casa ai margini della città/C'era un lavoro e una pista di pattinaggio"). Perché c’è un’America terribilmente attuale, un America che cade a pezzi e che procura un disagio, per il quale, spesso, l’unico lenimento sono le droghe. E’ questo il tema di “Painkiller”, sferragliante rock’n’roll che affronta la dipendenza da oppiodi con cinismo (“Ho sentito che il primo assaggio ti costerà un centesimo / Non menzionano mai come salgono i prezzi") e metafore (“Sarà la mia morte... impazzire su questo treno in corsa").

Dicevamo, però, che gli OCMS suonano anche per il gusto di divertire, di portare note liete nella vita di ascolta, di trasmettere positività e allegria. E allora, quella stessa energia, quell’esuberanza festaiola, spogliata dagli intenti politici, torna a brillare nel pianoforte honky tonk di “Lord Willing and the Creek Don't Rise” per disegnare un quadretto agreste di ingenua allegria e ottimismo vista fiume ("Faremo una piccola festa stasera/Dai Katy, non è niente/Togliti il vestito da festa, tuffati").

Se i temi cari alla musica country tornano in “Reasons To Run”, storia di un musicista che non trova più ragioni per continuare a suonare, e nella combustione lenta di “Honey Chile”, racconto di solitudine e di un amore che non c’è più, il ruggente bluegrass "DeFord Rides Again", scritto da Secor insieme a Molly Tuttle e Jerry Pentecost, omaggia il leggendario armonicista DeFord Bailey (la prima star nera del Grand Ole Opry e il primo artista afroamericano a registrare a Nashville), che per una questione di diritti d’autore, al vertice della fama, si ritrovò ai margini dello star system e sopravvisse facendo il lustrascarpe.

"Hillbilly Boy" chiosa, con alticcia allegria, un disco con cui gli OCMS tornano a giocare con il proprio armamentario di canzoni sincere e vibranti, in cui le radici mantengono intatta un’alta percentuale di ortodossia, nonostante la capacità della band di flirtare con suggestioni rock, e in cui lo sguardo critico, posato sulla nazione e sugli ultimi sconvolgenti anni, sfuma, spesso, in cartoline in bianco e nero, che evocano suggestioni di nostalgico romanticismo. Un grande album, forse più eterogeneo dei precedenti, ma egualmente brillante e coinvolgente.

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