Trembling Bells – Dungeness (2018)

di Ignazio Gulotta

È sempre una grande gioia ogni ritorno sulle scene della band scozzese, alfiere del miglior folk rock oggi sulla piazza ed erede della stagione d'oro del genere, per intenderci quella di Fairport Convention, Steeleye Span e dello psych folk dell'Incredible String Band. Un'attività discografica quella dei Trembling Bells che dal loro debutto nel 2009 è stata intensa e ricca di autentiche perle: da “The Constant Pageant” a “The Marble Downs” e “The Bonnie Bells of Oxford” (gli ultimi due registrati insieme al songwriter americano Bonnie 'Prince' Billy), a “The Sovereign Self” la discografia della band fondata dal batterista Alex Neilson si è sempre mantenuta su livelli ottimi. Peccato soltanto che non abbia ancora avuto il riconoscimento che certamente merita, restando il loro un nome di culto ristretto, almeno nel nostro Paese, a un non esteso gruppo di estimatori. Eppure la loro è una musica di grande fascino, ricca di pathos e capace di trascinare l'ascoltatore nelle spire delle loro melodie folk, a volte frenetiche e ballabili, altre cupe e malinconiche, ma così ricche di emotività e suonate con così straordinaria abilità e creatività musicale da essere altrettanto magnifiche da ascoltare nel proprio stereo di casa.

Questo ultimo lavoro “Dungeness”, il titolo si riferisce a un promontorio del Kent il cui paesaggio impervio ha ispirato la band, ci consegna i Trembling Bells in ottima forma, sottolineando ancor più che in passato quel carattere sperimentale e innovativo che ha sempre caratterizzato il loro lavoro, rileggendo in modo personale il genere con un approccio indie sottolineato in particolare dal suono fuzz della chitarra e dall'inventivo ed energico drumming di Neilson. Dungeness è anche l'album più cupo della band, i testi parlano dell'assurdità e incomprensibilità della vita, di amore, di sesso, di morte, un senso del tragico che aleggia fin dalla brevissima iniziale I'm Nothing con i suoi ombrosi versi «I’m the best version of myself that it’s possible to be / Now I’m living the only life that’s available to me», del resto basta scorrere i titoli di alcuni brani (This Is How The World Will End, Death Knocked at My Door, Devil in Dungeness) per capire l'atmosfera del disco. Che però è mitigata dalla luminosa voce da soprano della sempre più brava Lavinia Blackwell (foto a destra) e dalle meravigliose melodie che i Nostri imbastiscono.

Non resta che sottolineare i brani che più ci sembrano significativi: impossibile resistere all'incedere galoppante di Death Knocked t My Door, con il suo eccellente ritmo imposto da percussioni sulle quali aleggia lo spirito tribale, chitarre distorte e la voce della Blackwell che si incupisce prendendo coloriture dark e perfino punk; la stupefacente Devil in Dungeness brilla per le sue sonorità orientaleggianti con una chitarra che si invola in scale che sembrano ispirate ai suonatori di oud; in This Is How The World Will End è la voce di Neilson a disegnare scenari malinconici amplificati dalla lunga coda strumentale; il singolo I'm Coming è una ballata desolata e misteriosamente attorcigliata in un'ambigua storia di tentato suicidio o forse di un gioco erotico di autoasfissia, mentre la voce della Blackwell intona: «Oh Lord, I'm coming». Chiude questo bellissimo disco la bucolica Rebecca Dressed as a Waterfall in cui gli strumenti, flauto, chitarra, percussioni, violino, ma anche dolci cinguettii, si intrecciano in un suggestivo gioco di libera improvisazione, molto vicino al free jazz a ricordarci i trascorsi musicali sperimentali di Neilson.

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