James Holden & The Animal Spirits – The Animal Spirits (2017)

di Giuliano Delli Paoli

James Holden ha viaggiato parecchio negli ultimi anni, sostando qui e là alla ricerca della vocazione spirituale perfetta. A catturare la sua attenzione è stato soprattutto il Marocco, con il suo bel carico di tradizioni antichissime. Un viaggio che lo ha segnato al punto da deviare la propria musica verso qualcosa di ulteriormente “altro”, in particolar modo se raffrontiamo questa sua nuova avventura sonora ai patchwork elettronici cuciti con tanta parsimonia in passato.
Dunque, niente più frattaglie minimali, tentazioni spaziali, vocazioni acide. E via anche buona parte dei rimandi kraut e del sudiciume elettronico ad alto amperaggio ascoltato nell’accecante “The Inheritors”, con l’uomo nelle vesti del pifferaio magico alla continua ricerca di una possibile congiunzione astrale tra passo e presente. Per di più, il producer inglese sembra aver messo momentaneamente da parte anche le tentazioni annusate mediante la collaborazione con Luke Abbott nell’ottimo “Outdoor Museum Of Fractals/555HZ”, album figlio di un’elettronica progressiva del passato più luminoso, e messo in piedi a quattro mani con il poster di Terry Riley appeso al muro; una prova che lo aveva avvicinato non poco al climax di stampo zen e alla tradizione musicale indiana tanto cara allo storico compositore minimalista americano.

E così, a distanza di un anno da quel palese omaggio, il fondatore della Border Community torna a farsi vivo assieme ai fidati The Animal Spirits, sintonizzando la propria arte combinatoria con questa formazione di assoluto spessore e vocazione world-jazz, composta dai vari Marcus Hamblett, Liza Bec, Lascelle Gordon, Etienne Jaumet e il grandissimo Tom Page alle pelli. Siamo dinanzi, quindi, a una commistione d’intenti che rimescola le carte sotto il piano esecutivo, ma che per certi versi prosegue la profonda ricerca artistica attuata negli ultimi tempi dallo stesso Holden; una dimensione terrena “nuova”, percepita a piccole dosi nelle varie esecuzioni dal vivo del capolavoro del 2013, e che lo proietta mediante le varie tracce di questo suo quarto lavoro a metà strada tra le cavalcate dei Gong di “You” - in atterraggio sulla terra dopo il lungo viaggio sul pianeta omonimo - (“Pass Through The Fire”) e sinfonie proprie dello sciamanesimo magrebino più antico (“Thunder Moon Gathering”).
Del resto, non stupisce che negli ultimi quattro anni ad attirare l’attenzione del musicista di Exeter sia stata la musica gnawa del rimpianto Mahmoud Guinia. Mentre l’album nasce ancora una volta da un’unica, estenuante session dal vivo effettuata senza overdub ed edit. Ad arricchire poi le varie ripartizioni in scia spiritual jazz con microriflessi propri dello stile gnawa, è il carico modulare perfetto, posto nella title track da contraltare alle varie effusioni al sax fornite dall’ottimo Jaumet e alla ritmica perennemente incalzante e “selvaggia”; un crescendo che attesta la bontà di tale operazione e che quantifica al meglio la cifra stilistica raggiunta da Holden in questo suo nuovo cammino.

Ciò nonostante, pur mostrando un’ottima confidenza con tale universo strumentale, i ripetuti ascolti palesano qualche lecito dubbio circa la stabilità della nuova direzione intrapresa, e in alcuni momenti appare un po’ di sano manierismo. Di certo, Holden e i suoi spiriti animali fanno di tutto per condurre l’ascoltatore nel cuore pulsante di questa nuova oasi. Il non luogo del passato è ora spazio fruibile, percepibile. Tuttavia, la scelta di affidarsi a certo folclore risulta in definitiva meno potente e spiazzante della proverbiale elettronica dai risvolti trance talvolta clamorosi della prima metà della sua carriera. Manca quel pizzico di sana follia, lo sconquasso, il guizzo stordente e supremo raggiunto in quello che continua a rimanere ancora il suo assoluto capolavoro, l’acclamato e sopracitato “The Inheritors”.
Eppure, la coloratissima kefiah gigante immortalata nella bella cover del disco, con la quale l’artista ha figurativamente avvolto il suo nuovo progetto, incarna appieno l’anima intrinseca dell’opera. E al netto di qualche dovuta considerazione circa la resa definitiva di tale operazione, la schiettezza con la quale Holden palesa tale nuova inclinazione resta comunque merce rara, soprattutto se accostata a tante altre produzioni-lampo odierne, adagiate sui medesimi piani esotici, ma in modo spesso perennemente autocompiacente. Il che non è affatto poco.

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