The National – Sleep Well Beast (2017)

di Fabio Rigamonti

Siamo chiari sin da subito: un altro disco sulla falsariga di tutto quanto prodotto dai The National dopo l’immenso capolavoro “Boxer” non l’avremmo tollerato e perdonato né noi ascoltatori, né la band stessa, e questo nonostante l’amore ed il rispetto che la formazione di Cincinnati si è faticosamente conquistata a suon di lavori tutti tremendamente significativi.
Non stupisce, dunque, che la chiave di volta per evolvere quello stile inconfondibile che caratterizza il sound della band, dopo l’innesto dietro le quinte del violoncellista e polistrumentista Padma Newsome dei Clogs, sia l’uso dell’elettronica sulla falsariga di quanto fatto dai Sigur Ròs con il loro “Kveikur”, ma con risultati decisamente diversi.

Innanzitutto, qui non siamo nel caso dell’ispirazione statica da rinverdire con il classico (e, francamente, tremendamente prevedibile) “effetto speciale”, in quanto da dieci anni a questa parte i dischi dei The National, per quanto indistinguibili tra loro, sono tutti caratterizzati da una vibrante e consistente emozione conferita all’ascoltatore. Poi, in linea generale il risultato finale è che non sembra di essere di fronte ad un disco più moderno, anzi: “Sleep Well Beast” è un inciso che richiama, in più di un’occasione, la sabbiosa asciuttezza del blues del compianto Leonard Cohen.
E’ un fattore che si avverte potente nella meta-narrazione della title track o in “Walk It Back”, per non parlare della cavalcata chitarristica di Bryce Dessner su “Turtleneck”, uno dei brani più tirati (e punk nello spirito) mai composti dalla band.
Questo avvicinamento reverenziale a Cohen (avvertibile anche nell’uso dei cori femminili nel singolo “The System Only Dreams In Total Darkness” o “I’ll Destroy You” ed “Empire Line”, con la sua magnifica chiusa morbida e torbida come la più trasognante Julee Cruise), più sotterraneo e sottile rispetto al marcato uso dei synth, arricchisce in modo inedito la formula dei The National, rinfrescandola e rendendola ancora più interessante.

Il settimo inciso in carriera di Berninger & soci, difatti, si dimostra incredibilmente ricco. In tristezza, oscurità, malinconia e nichilismo (tanto quasi da far sembrare “High Violet” o “Trouble Will Find Me” dei dischi da pic-nic in una giornata di sole, e ce ne vuole), o in humor e in liriche dense e appiccicose (“Dark Side Of The Gym” è quel colpo di genio che il 95% delle band là fuori sogna di avere in carriera).
Persino quando la classica ballata alla The National pianoforte e sabbiato di batteria viene riproposta in “Carin At The Liquor Store”, il senso è quello di un confortevole ritorno a casa, piuttosto della noia derivata dall’ascolto di un brano prevedibile.

Tutto porta dunque ad un’unica, naturale conclusione: i The National partoriscono non solo uno dei dischi più belli di questo criminalmente intenso 2017 musicale, ma anche l’opera che li consacrerà definitivamente tra i grandi maestri della musica rock. E questo non per un clamoroso consenso generabile dalle canzoni del disco tale da coinvolgere e sconvolgere le masse, quanto piuttosto per una consistenza artistica rara e granitica che li porta, semplicemente, a non essere più ignorabili.

Da parte di nessuno.

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