Hav – Inver (2017)

di Gianfranco Marmoro

Un libro, un film, un disco o una favola a volte hanno bisogno di evocare sentimenti ancestrali per poter lasciare un segno. Una parola, un suono, un'immagine possono trasportare il lettore, l'ascoltatore o lo spettatore in un mondo ricco di suggestioni, di profumi e di sensazioni, ed è quello che accade durante l'ascolto di "Inver".

L'esordio degli Hav non è un disco qualsiasi, è una finestra che si apre su un luogo abbandonato, dove alla lentezza e alla quotidianità corrisponde una dimensione vitale più naturale ed etica. Il polistrumentista Alex Ross, il chitarrista e sound designer Jonathan Bidgood e il bassista Ian "Dodge" Paterson sono i tre membri della band scozzese, un trio alle prese con un viaggio immaginifico, sottolineato dalla poesia dei canti marinari e da quella vibrazione naturale che è legata alla quotidianità della vita rurale.

I quasi sette minuti introduttivi di "Ffald Y Brenin" identificano il luogo di partenza, un rifugio nel Galles dove albergano malinconia e dolcezza, dando vita a un unico linguaggio poetico, il richiamo dei gabbiani e il rumore delle onde si adagiano con grazia su violini, fisarmoniche, field recording, piano, basso e chitarra, agitando ricordi e suggestioni. Ed è un susseguirsi di photo-frame sonori che conducono con mestizia all'estatico finale di "Goodbye (This Time Forever)", una ballata empia di tristezza, cullata da cornamuse e tamburi rullanti che iniettano la giusta dose di serenità e speranza.

Tra traditional e brani inediti, gli Hav tratteggiano un mondo lirico fatto di ricordi e di riflessioni, avvicendando passato e presente con accordi frugali e quasi ingenui di violino: perfetta colonna sonora per un racconto di vita marinara ("Cullen Bay").
Ed è ancora il mare (Hav in danese significa mare) protagonista dell'intenso folk acustico a due voci di "Loch Tay Boat Song", un brano tradizionale già oggetto di altre interessanti riletture (come quella di Will Oldham "The Ohio River Boat Song").
Accade spesso che la band reinventi la tradizione con piccoli accorgimenti strumentali, come quando basso e chitarra prendono possesso di "Peggy Gordon", una ballata tradizionale resa famosa dai Dubliners, che la band interpreta alla maniera dei Fairport Convention con un rigore e una leggiadria strumentale ammirevole.

La magia di "Inver" è infine tutta racchiusa in quell'incedere mesto che simula le gesta quotidiane di una comunità agreste. La musica procede lentamente raccontando una giornata in una distilleria di whisky ("The Glenglassaugh") o una giornata di festa a suon di danze gaeliche appena contaminate dalle moderne alchimie stile Penguin Café Orchestra - "Lydia's Wedding (King Of The North)" - collocando altresì tra i due estremi un breve interludio per solo voci ("The Young Man's 21st Birthday"), dove lo zio di Alex Ross racconta brevi aneddoti familiari che hanno il compito di sottolineare ancora una volta il legame con il passato, fonte di quelle suggestioni che l'esordio degli Hav ha il merito di resuscitare con un calore e un fascino che non vi lascerà indifferenti.

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