The Lumineers – Cleopatra (2016)

di Francesco Chini

Dovessimo offrirne una sintetica definizione enciclopedica Mereghetti-style, dei Lumineers diremmo una cosa all’incirca così: “Newyorkesi di stanza a Denver, i tre sono esteti di un delicato folk pop contemporaneo e cultori di una scrittura semplice e lineare guidata da suggestioni romantiche all’insegna di un chiaroscuro che indulge più alla luce che all’oscurità.”

Ed è importante e bello poterlo dire: non sempre realtà come quella di questo terzetto riescono a catalizzare attorno alla propria musica l’attenzione che meriterebbe. Invece, seppur all’ombra di un debito lessicale ed attitudinale abbastanza difficile da negare col microcosmo di riferimento (Mumford & Sons anzitutto, ma anche Tallest Man On Earth e Of Monsters And Men: richiami tanto cristallini che li azzecca perfino Spotify) e senza gli squilli “bulimici” (quanto spesso effimeri) di tanto pop dell’ultima decade, il percorso di Wesley Keith Schultz e compagni pare destinato a una solidità sempre crescente. E – come sempre per quelli veri – la prova migliore ce la offre la musica.

A quattro anni dall’ispirato e fresco esordio The Lumineers, il suo successore Cleopatra è infatti un passo evolutivo naturale e ben in linea con l’inclinazione narrativa già palesata dalla band. Undici tracce (quattordici nell’edizione deluxe) che, senza tradirla, approfondiscono una poetica fatta di tanti piccoli-grandi temi: il desiderio di crescita e affrancamento dalla famiglia e dagli schemi preimposti (l’opener Sleep On The Floor, Gun Song o Sick In The Head), i viaggi inquieti di Long Way From Home o i “per sempre” ingenui e speranzosi che in Gale Song fanno dire “So when you hear my voice / And when you say my name / May it never give you pain”.

Ci sono ferite già profonde e numerose (My Eyes e In The Light), ché quello per cui si possa essere troppo giovani per conoscere un dolore è un luogo comune che non consola nemmeno i vecchi che lo ripetono. Ci sono ritratti femminili come Angela, non dissimili per vocazione da quelli che da noi ci saremmo attesi da un giovane De Gregori nei suoi momenti più dylaniani. E poi l’amore: sognato e promesso (Ophelia appartiene alla stirpe dei singoli che anziché sintetizzare per difetto il resto del disco, ne sono una piccola e ben esaustiva miniatura), perduto e rincorso (la title track, robusta quanto malinconica e dolce, autorevolissima candidatura a miglior brano del disco). E trattato come ogni altro tema di queste canzoni: come una domanda da affrontare con occhi ancora capaci di fragilità. Una domanda modulata con grazia, attraverso architetture musicali svelte e leggere che trovano nelle armonie scelte da Neyla Pekarek un contrappunto sempre discreto e fondamentale al crooning smilzo di Schultz.

Insomma, una ennesima prova provata di qualcosa che sapevamo già, ma che fa sempre bene poter riconfermare: alle belle canzoni basta poco per risuonare, finché si è capaci di sentire che valga la pena cantarle. Buona fortuna, cari Lumineers! (Mia valutazione: Buono)

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