The Smiths – The Smiths (1984)

di Marco Tucciarone

C’era una volta un ragazzo. Viveva a Manchester. Ma era figlio di irlandesi. Sua madre faceva la libraia, suo padre il portiere all’ospedale municipale. Non amava la scuola. Ma ciò non gl’impedì di amare Oscar Wilde, fino a diventarne un raffinato esegeta. Inoltre amava la musica. In particolare Sandie Shaw, i New York Dolls, e Dusty Springfield. Non aveva molti amici. La sua adolescenza fu un po’ noiosa. La passò principalmente a leggere, a scrivere, e a sognare. Tanto da restarne miope. Andava matto per James Dean. Per l’icona, più che per l’attore. Un giorno decise che avrebbe fatto il giornalista musicale. Voleva addirittura collaborare col New Musical Express. Ma la cosa non andò in porto. Tuttavia ci finì, qualche tempo dopo, sul New Musical Express, ma in copertina. Quando il ragazzo, Stephen Patrick Morrissey, era ormai per tutti semplicemente Morrissey. La penna, la voce dei The Smiths.

Il primo capolavoro di questa band, a cui ne seguirono altri, nell’arco di pochi ma intensissimi anni di attività, s’intitola semplicemente “The Smiths”. E ancora oggi, benché non sia un disco esente da difetti, rimane una gemma incastonata nelle sabbie del tempo. Un disco che somiglia tuttora a un eterno ragazzo. Di sicuro un ragazzo con la spina nel fianco, citando un celebre brano della band. Trafitto e incorniciato come una farfalla, usando le parole di “Reel around the fountain”, la prima traccia di quest’esordio, la prima toccante poesia.

Vidi un filmaccio, anni fa, su Italia 1. “Omicidi di classe”, questo il titolo. A un certo punto del film, uno dei personaggi dice qualcosa come: “È facile inscenare un suicidio. Basta che lasci nella casa del morto qualche disco degli Smiths”. Una battuta, certo. E neanche delle più brillanti. Ma con un fondo di verità. Già perché bastano pochi secondi. La batteria di Mike Joyce che introduce le danze. Poi tutti gli altri. Andy Rourke al basso. Johnny Marr alla sei corde. E lui, Morrissey: “È tempo di raccontare la storia di come prendesti un bimbo e lo facesti invecchiare”. Ecco, bastano pochi secondi, per naufragare nel dolcissimo mare degli Smiths, in assoluta solitudine, accompagnati dai soffici e intricati fraseggi di Marr, e dalle parole di Moz, che intinge il suo pennino nell’inchiostro di vite ordinarie, di pozzanghere periferiche, raccontandoci storie di comuni mortali, ormai divenute immortali. Grazie alla sua voce.

C’è un fondo di verità, in quella battuta. Perché i personaggi raccontati da Moz non sono altro che acrobati spiantati, in dolente equilibrio, sulla linea di confine fra Amore & Morte. Lo è il protagonista di “You’ve got everything now”, che ci ha lasciato in dono, da più di trent’anni, la sua estrema ed auto-inferta condanna esistenziale: “What a terribile mess i’ve made of my life”. Lo sono gli amanti senza futuro di Whalley Range, che animano le liriche di “Miserable Lie”. Per la cronaca, Whalley Range è il quartiere bohémien di Manchester dove avvenne il primo incontro fra Morrissey e Marr. Malgrado qualche passo azzardato (l’estenuante falsetto sulla coda finale di “Miserable Lie”, ad esempio), o qualche brano che suona più pieno, più deciso, sulla successiva raccolta “Hatful of Hollow”( la già citata “Reel Around the fountain), il disco mantiene intatta la sua aura, la sua forza musicale e insieme letteraria, proprio come un libro che non conosce oblio, e che Mozza il fiato ogni volta che lo leggi. Che sia prosa o poesia poco importa.

E oltre alle storie d’amore senza futuro, c’è anche quel fascino ambiguo, tutto letterario, capace di trasformare una dolce ninna nanna in un racconto dell’orrore. Come nel caso di “The hand that rocks the cradle”. Uno dei primi madrigali che Morrissey incise su cassetta, in attesa di qualcuno che li musicasse. E chi meglio di Marr, Rourke, e Joyce? Se può interessare, c’è anche una pellicola di ambito thriller che porta lo stesso nome del suddetto brano. Una pellicola in cui Rebecca De Mornay interpreta una specie di bambinaia serial killer. E a proposito di serial killer, la conclusiva “Suffer little children” parla degli omicidi compiuti da Myra Hindley e Ian Brady, una coppia di sadici, meglio noti come “gli assassini della Brughiera”, che falciarono via da Manchester le vite di diversi adolescenti sul finire degli anni ’60.

Amore & Morte, già. Ma anche speranza in un domani migliore, da cercare negli sguardi degli ultimi, delle persone qualsiasi, depositate sul fondo della propria feccia generazionale, eppur capaci di vivere l’amore con coraggio, pur sapendo che le storie, quasi sempre, non finiscono bene. Vedi alla voce “Hand in Glove”.
Gli ultimi, quelli che svaniscono come fantasmi al cospetto del mondo, con le loro vite, coi loro cognomi banali. Come “The Smiths”, appunto.

Inutile a questo punto parlare di punk, di rockabilly, di pop anni ’60, di jingle-jangle, di impostazioni vocali. Siano sufficienti questi versi, tratti sempre da “Reel Around the fountain”, per spiegare la poesia di questo disco, la sua verità. Una verità che riguarda il cuore. Più di ogni altra cosa al mondo. (Mia valutazione: Distinto)

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