Yo La Tengo - Stuff Like That There (2015)

di Claudio Lancia

A venticinque anni esatti da “Fakebook”, quello che fu il loro quarto lavoro in studio, i signori Yo La Tengo ripetono l’esperimento di pubblicare un album nel quale alternare revisioni personalizzate di brani altrui e tracce autografe.
“Stuff Like That There” rappresenta il perfetto sequel di quell’avventura, forte della presenza di nove cover, tre rivisitazioni di pezzi propri già pubblicati in passato e due inediti: “Rickety” e “Awhileaway”.

In realtà la vera notizia per lo storico trio indie-rock statunitense (che da poco ha agilmente varcato il traguardo del trentennale d’attività) è che per l’occasione torna a essere un quartetto: accanto a Ira Kaplan, Georgia Hubley e James McNew, c’è il ritorno (non sappiamo se soltanto provvisorio) alla chitarra di Dave Schramm.
La compresenza di due chitarristi rende possibile un lavoro impressionante sulle sei corde, intrecci e intarsi che si rincorrono per tutta la durata delle quattordici tracce, slide e ritmiche che a volte porgono il fianco a delicati fraseggi elettrici, senza mai andare sopra le righe, in un’atmosfera complessiva tanto soffusa quanto (a volte troppo?) controllata.

Sì, perché “Stuff Like That There” è un disco carezzevole, fatto di spazzole, tremoli, vibrati e voci dolcissime, in uno spettro sonoro che si muove dalle introspezioni notturne di “Naples” all’alternative country di “I’m So Lonesome I Could Cry” (l’originale era di Hank Williams), il tutto reso con quell’andatura cinematografica, tipica dei lavori firmati Yo La Tengo, fra le poche formazioni al mondo in grado di raccontare per immagini immaginarie (scusate il giochino di parole) e non soltanto attraverso i suoni.
Per alcuni tratti la batteria non è nemmeno contemplata (vedi la nuova release di “Deeper Into Movies”), ma tutto resta sempre saldato assieme in maniera straordinariamente robusta, per un risultato finale che si presenta rigorosamente tenue e coeso.

Fra le cover c’è soltanto un brano davvero iper-famoso, ed è l’hit dei Cure “Friday I’m In Love”, la quale subisce lo stesso trattamento di quasi tutti i pezzi prescelti: viene privata di gran parte del fervore originale, rallentata e resa in forma più “depressa”. Lo stesso destino è assegnato a “I Can Feel The Ice Melting”, brano dei Parliament di George Clinton, qui reinterpretato senza la cadenza funk che lo caratterizzava.
Il quartetto di Hoboken spazia in maniera trasversale, reinterpretando antipodi stilistici che vanno dai Lovin’ Spoonful a Sun Ra, confermando (se mai ce ne fosse ancora bisogno) quell’essenza onnivora che nel 1997 generò il caleidoscopico “I Can Hear The Heart Beating As One”.

I brani autografi, sia quelli inediti, sia quelli rivisitati per l’occasione, si fondono perfettamente con il resto del menù, attraverso un trattamento dei suoni decisamente folk-oriented.
Resterà deluso chi si attendeva qualche squarcio elettrico in più, o chi sperava di stanare eventuali slanci experimental-shoegaze, cose alle quali i signori ci avevano abituati: per qualcuno “Stuff Like That There” potrebbe risultare un tantino monocorde, ma qui va apprezzata la rigorosa definizione di un mood che parte dall’analisi di strutture spesso lontane dalle proprie, centrando l’obiettivo di caratterizzare le canzoni prescelte attraverso quello stile notturno e cinematico che è un po’ il trademark Yo La Tengo. Un interscambio davvero raro da riscontrare in musica, e in questo caso perfettamente riuscito. (Mia valutazione: Buono)

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