Beirut - No No No (2015)

di Emanuele Brunetto

Scherzare col titolo di questo quarto album a firma Beirut sarebbe fin troppo facile e anche un po’ cattivo, specie se ad ascolto già avvenuto. No No No, infatti, potrebbe tranquillamente essere la reazione di disappunto di tanti fra coloro che decideranno – con più o meno aspettative al riguardo – di capire che ha combinato l’ex bambino prodigio Zack Condon negli ultimi quattro anni dal punto di vista musicale (visto che dei casini privati se n’è parlato abbastanza).

Quattro anni trascorsi dall’ultimo “The Rip Tide” (2011), fattosi attendere a sua volta altri quattro anni da “The Flying Club Cup” (2007), lassi di tempo che qualcosa devono pur significare in termini di esperienza, maturità, crescita, evoluzione o chiamatela come diavolo vi pare. Invece niente, nada di nada, Beirut suona sempre, costantemente uguale a se stesso, circostanza che se al secondo album sa di conferma, al quarto si trasforma in pesantezza, rovinando le belle sensazioni dettate da quel sorprendente esordio che fu “Gulag Orkestar” nel 2006.

Condon e la sua band si dilettano ancora con il loro folk macchiato da etnicismi e world music, alternano sonorità gypsy a quelle indie rock, piazzano un pianoforte qua, una manciata di fiati mariachi là, le solite atmosfere agrodolci e la solita fissa per i luoghi, che tornano nei titoli delle canzoni da quattro album a questa parte. Insomma, un totale immobilismo.

Non è questo un disco scarso, privo di appeal o mal prodotto. È semplicemente un disco noioso e stantio che non aggiunge e non toglie nulla alla parabola Beirut, men che meno al genere di riferimento, il che è molto, molto peggio. Anche i bambini meno svegli finiscono per scocciarsi se gli si propina per un mese di fila lo stesso gioco. (Mia valutazione: Discreto)

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