Calexico - Edge Of The Sun (2015)

di Tommaso Iannini

Chi aveva salutato con interesse e curiosità la comparsa dei Calexico e della loro musica borderline alla fine degli anni ’90 apprezzava una mescolanza di stili piuttosto nuova, almeno per il contesto del rock indipendente; sì, l’alt country, le atmosfere western, Morricone e tex-mex, le suggestioni latineggianti, ma a qualcuno – leggi, il sottoscritto – piaceva pure fissarsi su quel pelo nell’uovo, il piccolo accenno di post-rock (penso per esempio alla title-track di The Black Light, tra jazz e slow core) che contribuiva a rendere l’alchimia ancora più misteriosa e intrigante.

Trovarlo il pelo in Edge of the Sun, che pure è un tripudio, una fiesta dello stile Calexico. Convertino e Burns hanno mantenuto negli anni il concept del sound di frontiera – musicale e geografica, per l’occasione hanno sciacquato ancora di più i panni in Messico prima di ritornare a Tucson – e dell’immaginario desertico, spostandolo sempre più verso un pop elegante; almeno da Feast of Wire e Garden Ruin, dalla mescolanza di ballate e strumentali degli album precedenti hanno virato più sulla forma canzone, ottenendo anche per questo riscontri di pubblico sempre più favorevoli.

Il taglio di questo nono album in studio non fa eccezione, se non per l’essere possibilmente ancora più marcato. E non è detto in senso negativo, perché oltre all’immediatezza, salta all’orecchio la qualità concentrata (strizzata nei canonici tre/quattro minuti) della scrittura. L’iniziale Falling from the Sky e Tapping on the Line possono essere considerati il non plus ultra di questo ibrido tra americana e melodia moderna, memore alla lontana di certi Wilco (giusto con una spruzzata di elettronica, ma pure i soliti fiati mariachi); anche se l’ago della bilancia del nostro gradimento pende più verso i chiaroscuri potenti di Bullets and Rocks e le levigatezze sempre country rock di When the Angels Played.

Se Miles from the Sea e Beneath the City of Dreams traggono forza (specie quest’ultima, con un accattivante ritmo in levare) dalla loro stessa orecchiabilità, alcuni brani sono inevitabilmente un po’ più di maniera, a partire dalla citazione di genere latinoamericana di Cumbia de Donde e dalle atmosfere spaghetti western di Coyoacan. Ogni brano, poi, è sempre messo in cornice da arrangiamenti eclettici e supercurati, cui il parterre di ospiti (Sam Beam, Neko Case, Ben Bridwell dei Band of Horses, Pieta Brown, giusto per citarne alcuni) aggiunge senza dubbio qualcosa in fase di rifinitura. Un disco che mostra i Calexico non al vertice, ma in ogni caso nel pieno delle loro capacità. (Mia valutazione: Buono)

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