Steve Earle & The Dukes - Terraplane (2015)

di Gianfranco Callieri

Casomai qualcuno se lo chiedesse (ma il dato possiede anche un suo senso “narrativo”), la Terraplane, fino al 1934 EssexTerraplane, era un modello di automobile prodotto da una casa di Detroit, la Hudson Motor Company, e molto diffuso negli Stati Uniti ai tempi della Grande Depressione. La vettura, assai simile a quelle che potete vedere in una qualsiasi puntata di Boardwalk Empire, divenne, in virtù del costo accessibile, una delle più comprate, anche in tempo di crisi, e contribuì a fare della Hudson (sopravvissuta per altri vent’anni) una delle poche aziende davvero floride del paese. La Terraplane ispirò persino il primo successo di Robert Johnson, la Terraplane Blues uscita su 78 giri (etichetta Vocalion) nel 1937, con Kind Hearted Woman sul lato-b, e registrata l’anno prima in quel di San Antonio, Texas. Il brano di Johnson era in pratica un riassunto, più sfacciato di qualsiasi altra cosa pubblicata fino a quel momento, della capacità, tipica dei bluesmen, di condensare gli argomenti più scabrosi dentro metafore abbastanza trasparenti da preoccupare l’opinione pubblica e stuzzicare la fantasia degli acquirenti dei cosiddetti racerecords. Nella fattispecie, il sesso: sotto l’abituale confezione cupa e disperata, Johnson discettava infatti dei problemi al motore della Terraplane per parlare, in un trionfo di simbologie “meccaniche”, dell’apatia sessuale della propria donna, e chiedendosi «chi avesse guidato» l’auto in sua assenza si domandava in realtà se la compagna non avesse trovato soddisfazione nel letto altrui. Il sesso e il Texas sono sempre stati due argomenti piuttosto importanti per la carriera di Steve Earle. Il secondo non è la sua terra d’origine, ma poco ci manca, perché il nostro, pur essendo nato sessant’anni fa in Virginia, in Texas è cresciuto, anche in senso musicale (scappò di casa all’età di 14 anni per seguire i concerti del texano Townes Van Zandt), fino a considerare lo stato una specie di seconda casa, e pertanto non stupisce che nel realizzare il nuovo Terraplane, ossia un omaggio al blues secondo i canoni dell’autore di Hard-Core Troubadour, il nostro si sia rifatto in modo particolare al linguaggio dei texani Lightning Hopkins e Mance Lipscomb, alfieri di un country-blues secco, radicale e sferzante, rinsecchito dalla polvere delle pianure, frustato dalla miseria delle campagne, forzato da un alone spettrale di rabbia e povertà. Mentre per quanto riguarda il sesso, be’, impossibile negarne la rilevanza quando si è, come Earle, al settimo divorzio e si ammette con candore di suonare spesso dal vivo soprattutto allo scopo di pagare gli alimenti, il cui ammontare mensile credo potrebbe a questo punto corrispondere al PIL di una nazione in via di sviluppo.
Terraplane, insomma, come nella migliore tradizione del blues, parla di Texas, sesso, donne, separazioni (Earle stesso l’ha definito un «break-up album sulla solitudine in genere»), musicisti e gioco d’azzardo per raffigurare ancora una volta un’America in frantumi, lacerata da innumerevoli divisioni (di razza, di censo, di opportunità) e pertanto piombata nella violenza e nella distruttività di un individualismo spietato (del quale non si vede ancora il fondo), e lo fa ricorrendo a un’ammirevole ironia e a un’altrettanto gradita modestia, elementi indispensabili per affrontare un genere alla base del folklore americano con grande rispetto per la lettera (tradotta con affetto e fedeltà di stile, com’era già accaduto per il bluegrass di The Mountain [1999]) ma al tempo stesso con la voglia di emanciparne lo spirito e i suoni.
Registrato presso la House Of Blues di Nashville, Tennessee, non lontano dal cimitero dove sono sepolti George Jones, Tammy Wynette e Porter Wagoner, ancora una volta prodotto e mixato dai fidati R.S. Fields e Ray Kennedy, di nuovo interpretato dai coniugi Masterson (Chris alla sei corde, la moglie Eleanor Whitmore al violino), dall’ormai storico bassista Kelley Looney e dal batterista Will Rigby, Terraplane sembra aver soffiato sulla scrittura del titolare una ventata d’aria fresca. Se molti dei tratti ormai inconfondibili della sua dimensione sonora, dal suono essenziale e caracollante dei tamburi agli ingressi brucianti, esplosivi e à la Rolling Stones di chitarre spesso distorte, dall’incedere sudicio e grunge degli arrangiamenti all’impiego di un mandolino tanto ossuto quanto tagliente (ascoltate l’omaggio a Chuck Berry della convulsa Acquainted With The Wind), continuano a essere presenti, l’immersione nei territori più ruvidi, paludosi, scorticati e straccioni del blues ha consentito al nostro di ritrovare un’espressività per quanto mi riguarda negli ultimi anni un po’ appannata e foriera non di brutti lavori (Earle non ne ha mai licenziati), ma di opere magari incapaci di aggiungere qualcosa di nuovo a un canone già compiuto ai tempi dell’esordio – il capolavoro Guitar Town (1986) – e perfezionatosi all’indomani dell’uscita dal carcere, nel lustro aureo compreso tra il ’95 e il 2000.
L’album è un requiem per il blues classico, celebrato nei deliziosi quadretti ragtime di Ain’t Nobody’s Daddy Now, Baby’s Just As Mean As Me e Gamblin’ Blues (assieme alla citata Acquainted, tutti countryblues in chiave old-timey utili a spezzare la feroce tensione elettrica degli altri episodi), e contemporaneamente una celebrazione della sua vitalità (resa vibrante nel serpeggiare oscuro e nervoso della slide lungo una You’re The Best Lover That I Ever Had somigliante a un incrocio impossibile tra l’irruenza di Howlin’ Wolf e il sinistro, strisciante bayou-rock di Tony Joe White), della sua liberazione (inscenata nel crudo romanzo chitarristico di una The Tennessee Kid dedicata al mito della vendita dell’anima al diavolo in cambio di talento musicale), della sua attualità (terminate le scosse sismiche dell’ultima King Of The Blues, metallico, lancinante bulldozer diviso tra minacciose scariche hard, riff a cascata e un dobro martellante, non si sa più se tirare in ballo il blues o lo stoner-rock). Anche le parentesi più tipiche, per esempio l’iniziale Baby Baby Baby (Baby), boogie sferragliante e infuocato come ai tempi dei Canned Heat, o la malinconica Better Off Alone (forse l’unico momento sospettabile di una qualche autocitazione, eppure talmente intenso e commosso, nel suo paradigma di ballata rock, da strappare il cuore senza troppi problemi), non sprecano una frase o un taglio sonoro, e persino un pezzo apparentemente “facile” quale Go Go Boots Are Back, gospel profano dalla sezione ritmica implacabile, possiede una forza melodica così pronunciata da sorpassare a sinistra anche l’ortodossia stonesiana dei Drive-By Truckers.
Nonostante configuri un atto di riverenza al blues, vi invito a non considerare Terraplane un semplice album di genere: non ci sarebbe nulla di male se lo fosse, è chiaro, ma qui siamo di fronte, oltre che al migliore Steve Earle degli ultimi quindici anni, a una di quelle singolari, e preziosissime, operazioni in grado di ribaltare ogni perimetro di genere pur onorandone logiche, modelli, sistemi. Qui, in un continuo cambiamento di prospettiva e in un continuo ripensamento della relazione con i propri maestri, ci sono le difficoltà, le delusioni e i problemi di tutti noi, l’ipotesi di un cammino, l’orientamento di una visione, il percorso (complesso eppure irrinunciabile) di una tradizione musicale verso la sua dolorosa modernità. (Mia valutazione: Distinto)

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