B.B. King (I tre King #1)

Si può dire che per molti, bianchi o neri che siano, rappresenta ancora oggi il blues. Nove chitarristi blues americani di colore su dieci oggi suonano come lui, senza contare tutti i cantanti che cercano inutilmente di imitarlo.
A fine anni Cinquanta era già una piccola stella nel mercato dei neri ma l’esplosione della soul music (“per me non era altro che una continuazione del rhythm and blues, cioè black music popolare con una forte base di gospel e di blues”) lo mise bruscamente in secondo piano. L’arrivo di Marvin Gaye, Jackie Wilson, Sam Cooke lo fece diventare un outsider. Nessuno pareva più interessato a un bluesman un po’ impacciato, quando sul palco c’era un Jackie Wilson esplosivo che cantava Doggin’ Around. La gente impazziva e a poco serviva suonare Rock Me Baby con un bel “solo” pulito di chitarra.
Insomma suonava molto ma faceva più o meno la fame.
La cosa cambiò verso la fine degli anni Sessanta quando molti chitarristi sia bianchi che neri iniziarono a citarlo come loro idolo, in particolare Mike Bloomfield, il solito Clapton e Peter Green.
Bill Graham, che aveva la vista lunga, lo prese subito come ospite più volte al suo Fillmore Est. Nel gennaio del 1969 due giorni in compagnia di Johnny Winter e Terry Reid (qualcuno di voi se lo ricorda?), ad agosto dello stesso anno in una serata con Jefferson Airplane e Who, a settembre in compagnia di Albert King e della Bobby Blue Band. Tanto per far capire come il pubblico fosse ormai lo stesso e come i neri trovassero ormai nel pubblico bianco il loro target preferito. Quando il Fillmore chiuse nel giugno del 1971 nelle ultime sei serate BB King c’era, in compagnia dei Moby Grape, Edgar Winter e Albert King.
B.B. King, autodidatta, risentì delle influenze chitarristiche di T-Bone Walker (un texano maledetto che contribuì, forse più dello stesso BB, a creare il blues moderno) nelle sue prime incisioni ma già negli anni ’50 il suo stile cominciò a prendere forma anche se era ancora tutto molto accademico: dal punto di vista teorico il suo approccio chitarristico si basò fondamentalmente sul modo misolidio (vedi appunto T-Bone Walker e Lonnie Johnson con un’occhiatina al chitarrista jazz Charlie Christian e a Django Reinhardt) ma la particolarità di B.B. King fu il “sentire” il cambio dell’accordo.
Cerchiamo di specificare meglio.
I° grado: tonica, terza maggiore e quinta IV° grado: terza minore (b7 dell’accordo), quarta (tonica dell’accordo) e sesta (terza maggiore dell’accordo) V° grado: quarta ( b7 dell’accordo) e sesta (nona dell’accordo). 
In questo modo B.B. King sottolineava il cambio degli accordi al contrario di molti chitarristi blues che avevano un approccio più “modale”, magari usando solo la pentatonica minore.
Dal punto di vista sonoro invece, lo stile di B.B. King si basò sull’imitazione della voce: scoprì ben presto che, sfruttando il sustain dello strumento unito all’alto volume dell’ampli, era possibile prolungare la durata delle note ed avere un fraseggio più fluido ed in qualche modo un suono simile a quello che otteneva suo cugino Bukka White con il bottleneck. Fondamentali in questo stile sono il bending e il vibrato, due marchi di fabbrica di King, considerati il bagaglio base di ogni chitarrista di blues.
Per quanto riguarda in particolare il vibrato, nel caso di B.B. King si può parlare di vibrato a “farfalla” dove le dita della mano sinistra, ad eccezione dell’indice, si aprono a ventaglio quasi a fare da contrappeso al pollice.
A proposito del bending bisogna aggiungere che nel blues, grazie a questa tecnica, si usano micro tonalità simili alle MIND indiane (trazioni laterali della corda applicate al sitar) e che in realtà la succitata scala ibrida blues/misolidia si potrebbe scrivere con questa formula: 12b3/34b5/56b7
In cui b3/3 viene suonato come una nota tra la terza minore e quella maggiore (una terza minore crescente o una terza maggiore calante) e lo stesso discorso vale per la quinta. Capito qualcosa? Uhm.
Ecco cosa disse King del suo approccio vocale: “Ero un fan di Frank Sinatra sin dagli anni Quaranta quando lui cantava con Tommy Dorsey; andavo pazzo per lui, perché nessuno sapeva cantare ballate con maggior dolcezza. E se voleva swingare non aveva uguali”.
Da quando gli U2 nel 1989 gli diedero in mano When Loves Comes To Town su Rattle And Hum, B.B. King è diventato una stella di fama mondiale.
Ha studiato il metodo Schillinger di composizione musicale, possiede il suo bravo brevetto di pilota, è comparso in film, suona spesso nei casinò di Las Vegas, è diventato un personaggio fisso delle reti tv americane, nonché del Pistoia Blues Festival, e funge da ambasciatore internazionale della simpatia nera, un po’ come aveva fatto Louis Armstrong.
Pescando nella sua discografia, nella sua vecchia produzione ci sono un paio di dischi su Ace ottimi (The Best Of B.B.King e The Memphis Masters), spostandoci più in la consiglio My Kind Of Blues del 1960 (su Chess) registrato con una semplice sezione ritmica e con il pianista Lloyd Glenn, che lo stesso BB considera come il suo miglior disco e Live At The Regal. Se si vuole esagerare sono usciti moltissimi box. C’è solo l’imbarazzo della scelta.  (Max Stèfani)

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